08/08/11

Canto popolare, com’è perfetta la semplicità


“Fior di giaggiolo, / gli angeli belli stanno a mille in cielo, / ma bello come lui ce n’è uno solo”. Così cantava mia madre per casa, certi giorni in cui l’intimità domestica la faceva contenta di quel poco di mondo. Lei che aveva voce da mezzosoprano, alla maniera di Lola che nella Cavalleria rusticana intona proprio quello stornello. Io ascoltavo, preso dalle assonanze, dalla fluidità delle parole ben poste di seguito per dire molto più di quel che dicono. Prodigio di una poesia popolare – o comunque, per osmosi e contaminazioni, fatta patrimonio di popolo – che soprattutto in Toscana può dirsi testimonianza letteraria. La questione l’aveva colta con acume Mario Luzi introducendo una riedizione dei Canti popolari toscani di Giovanni Giannini (Edikronos, 1981), allorché sottolineava l’oggettiva ambiguità del termine ‘popolare’ attribuito ad una produzione poetica nella quale non sappiamo in che misura il ‘rustico’ abbia attinto dalla cultura egemone e, viceversa, quanto il ‘letterario’ abbia trattato in maniera popolaresca spunti autentici di poesia provenienti dal suo opposto e primario universo. Ammesso – diceva sempre Luzi – che si fosse trattato di realtà veramente opposta e primaria rispetto a quella di ‘corte’.
Considerazioni in qualche modo anticipate pure da Pier Paolo Pasolini nel suo Canzoniere italiano (Guanda, 1955) che annotava come in Toscana, mancando una distinzione glottologica tra lingua e dialetto, “un cantante popolare e un poeta ‘culto’ usano la stessa langue, l’identica grammatica, gli identici termini strumentali”. Sicché – concludeva lo scrittore friulano – poesie che presentano aspetti formali, altrove negativi, di semi-popolarità, qui restano in effetti ‘popolari’; oltre ad essere prive di quella rozzezza e quell’ingenuità che caratterizzano di un sia pur infantile realismo i versi che si ascoltano in altre regioni.
Ma le suggestioni esercitate dal vasto repertorio della tradizione popolare non si limitano soltanto all’ambito letterario. Ad esempio la storia della musica attesta che molti sono gli autori ad avere subìto il fascino delle melodie di estrazione popolare. A partire dalle prime espressioni monodiche del canto liturgico fino alle Folk songs di Luciano Berio, passando per i corali di J. S. Bach, le danze ungheresi di Brahms, alcuni temi delle sinfonie di Mahler provenienti direttamente dai Café chantant. Tutti affascinati dalla sfida a rimodellare una materia sonora elementare (banale, direbbero alcuni), tanto semplice quanto perfetta.

01/08/11

Il poeta di Bolgheri. Nel limbo pop dei ricordi


La maestra si pose in piedi dinanzi alla cattedra, chiese attenzione, inclinò leggermente la testa come a farsi pendant della carta geografica che sulla parete di destra piegava in direzione opposta. E prese a leggere con la pacatezza che può essere scelta a registro di commozione: “I cipressi che a Bolgheri alti e schietti / van da San Guido in duplice filar…”. L’aula era racchiusa in un silenzio più distratto che partecipe, anche perché i bambini non è che ricavassero molto da quelle parole tanto solenni; poi l’insegnante fermò la lettura e prese a parlare di sentimenti, ricordi, fanciullezza, nonne, e persino dell’inesorabilità del tempo che non torna indietro. Perché Giosuè Carducci – proseguì la maestra – riuscì ad esprimere tutti i più intimi sentimenti dell’animo umano. Ecco, bambini, per sabato imparerete a memoria fino a “guardando io rispondeva – oh di che cuore!”.
Questa scenetta in cui molti si saranno rivisti, bene si presta a richiamare la dimensione popolare del Carducci, ma non di meno il limbo in cui è stato relegato. Anche, e soprattutto, in considerazione del fatto che la critica non ha mai sciolto le proprie riserve su una poesia alla quale il suo autore intendeva dare responsabilità civili e di analisi storica, oltre che di sperimentalismo formale tutto giocato attraverso le forme classiciste. Un giudizio critico, rimasto appunto sospeso, ove troviamo l’iniziale e positivo riconoscimento di Benedetto Croce (che vide in quei versi un esempio di “integra umanità”), le perplessità di chi successivamente ne evidenziò la scarsa originalità rispetto al panorama europeo (Natalino Sapegno parlò di “poeta minore”), i cauti recuperi di una critica più recente che nella lirica carducciana ha comunque rilevato una sofferta e autentica tensione continuamente rapportata ai temi fondamentali della vita e della morte.
Sappiamo che Carducci, con foga antiromantica, intendeva ripristinare nelle lettere l’antico splendore dell’arte classica che a suo dire era l’unica congeniale al popolo italiano. Ma indubbiamente egli non seppe cogliere il vero senso del romanticismo europeo. E il mondo letterario lasciò ben presto perdere lui e i suoi roboanti versi. Quasi alla maniera del bigio quadrupede che il Vate aveva visto dal treno in corsa, nei paraggi di San Guido, prescindere completamente dai suoi elegiaci sussulti: “Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo / e a brucar serio e lento seguitò”. Diciamo, dunque, che agli effetti della storia letteraria, Giosuè ebbe a perdere il treno, anzi la coincidenza.