18/06/12

Finale di partita. Si torni a onorare la dea Eupalla

Non c’è più religione. Nemmeno quella laica che si intendeva professare con il gioco del calcio. Religione – a detta dello scrittore catalano Manuel Vásquez Montalbán – “in cerca del suo Dio… con i suoi riti e le sue cattedrali, le gioie, le delusioni”. Al pari di tutte le religioni, il credo calcistico è ora avvilito dalle proprie contraddizioni, tra annunci di nobili intenti e una prassi che continuamente li smentisce. Preghiamo, dunque, per nostro fratello football, vittima (ma non innocente) di business, corruzione, ingaggi e debiti stellari, ragazzi dai piedi d’oro a discapito dei materiali scadenti che, invece, foderano il loro il cervello, branchi di supporter che, pur al netto dei delinquenti che vi si annidano, rappresentano ormai tutt’altra cosa dall’essere appassionati sostenitori di una fede (parola comunque impegnativa per qualcosa che sarebbe nata come un gioco). Fine, dunque, anche di quell’epica moderna che intorno al calcio era stata creata grazie alle penne di grandi giornalisti e scrittori. Figuratevi che Albert Camus si era spinto a dire che tutto quello che sapeva della vita lo aveva appreso dal pallone. Pier Paolo Pasolini non ebbe dubbi nel ritenere il calcio l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, lo spettacolo che aveva sostituito il teatro. L’autore degli Scritti corsari dedicò giusto una di quelle pagine al sistema dei segni contenuti nel football, paragonabile al linguaggio scritto-parlato, con i fonemi che grosso modo sono 22 come i “podemi” (cioè i giocatori) i quali hanno una loro sintassi, infiniti fraseggi, un discorso (la partita) che migliaia di persone sono chiamate a decifrare. E Pasolini non mancò la metafora letteraria nemmeno quando si trattò di fare considerazioni tecniche sul calcio praticato in Europa e in Sudamerica: il gioco di squadra degli europei, tutto organizzazione e tecnicismi, era prosa; la fantasia dei solisti sudamericani pura poesia. Oggi il racconto epico del calcio si è interrotto per mancanza di eroi e di vicende degne di tale aura. La cronaca ha avuto il sopravvento sull’epos. Il linguaggio si è appiattito. Stante la situazione non è più possibile glorificare alcuno e nemmeno praticare quella sorniona, colta ironia con cui Gianni Brera intesseva i suoi racconti, fondando un modo nuovo di narrare le imprese sportive e, non di meno, di guardare allo sport in maniera divertita e intelligente. Per usare uno dei sorprendenti neologismi dello stesso Brera, confidiamo allora nella dea Eupalla, protettrice del calcio e del bel gioco, affinché questo sport ritrovi dignità e passioni autentiche. Un compassato tifoso, il poeta Eugenio Montale, diceva di sognare, a volte, che nessuno in tutto il mondo avrebbe fatto più gol. Ma il calcio senza gol non sarebbe niente – continuava il poeta – anche se non sopportava la televisione che mostrava solo i gol, privando gli spettatori della bellezza di tutto il resto: l’attesa, le paure, gli scontri. Ecco, questo è il calcio di cui anche noi chiederemmo grazia alla dea Eupalla .

11/06/12

Quando non sono solo canzonette

A volte ritornano. Sono i ricordi musicali, le canzoni lasciate magari in pause da anni perché la vita ci ha distratto, chiamati a fare (ad ascoltare) altro. Per questi ‘disturbi dell’udito’ (ma l’origine è psicosomatica) gli inglesi hanno coniato un termine: earworms, si tratta cioè di ‘vermi dell’orecchio’. Ciascuno di noi può essere colpito dal fenomeno nei momenti più diversi della propria esistenza e soprattutto quando di quella stessa esistenza si tenti di montare il film: tagliando, riordinando le sequenze, pretendendo una regia. E’ allora che la colonna musicale parte, sfrigola, distorce, galleggia nelle sonorità del tempo andato. E i ‘vermi dell’orecchio’ o restano vili esserini o divengono farfalle. Insomma dalle canzoni non si può prescindere. Sono parte dei ricordi, del nostro castello sentimentale, persino delle nostre scelte di vita, delle opzioni ideali e politiche. Ne sappiamo qualcosa noi che dal battello festoso (e, però, inconcludente nella sua navigazione) del secondo Novecento ci siamo ritrovati sulle zattere alla deriva del nuovo millennio, sprovvisti pure di nuova musica a sostegno emotivo di una qualche rotta. Inevitabile, allora, è che tornino alla mente certe canzoni chiamate “dell’impegno”, definizione oggi un po’ patetica, come del resto penoso suona un loro riascolto. Eppure furono utili anch’esse a formare una coscienza sociale; e se non altro, venendo specificatamente all’ambito della musica, a migliorarne la qualità, i significati. Umberto Eco ricordando, ad esempio, la nascita nel 1957 dei Cantacronache (letterati quali Italo Calvino, Franco Fortini, Gianni Rodari, lo stesso Eco si misero a scrivere testi musicati da Sergio Liberovici, Fausto Amodei e Michele Straniero) sostiene che per quanto quella sia stata un’esperienza di nicchia, senza di essa la storia della canzone italiana sarebbe risultata diversa. A seguire giunsero infatti i cantautori, con una attenzione più ‘letteraria’ ai testi, operando una sutura tra sentimenti privati e pubblici, provocando una contagiosa effusione e con/fusione di stati d’animo. Guccini in un suo brano (Keaton, nell’album Bovary) dice che “parlavamo di com’era importante non essere solo musica e parole… di com’era importante che la gente non fosse una massa di persone sole”. E’ vero che c’era un unisono universale, tutti cantavamo la ‘stessa’ canzone. Soprattutto la canzone riuscì a interpretare un frangente storico, una temperie culturale, slanci e trasformazioni di un’epoca. Ma poiché la canzone esprime comunque il tempo in cui essa è prodotta, meriterà, senza sospirosi i remember, ascoltare ciò che ora si va cantando. Musica e parole, anche al di là delle intenzioni degli autori e dei fruitori, consuonano sempre con il presente, sono in ogni caso ‘musica di oggi’. Musica ‘impegnata’ almeno a riorganizzare dentro noi necessari sentimenti, dispersi pensieri, provvidenziali consolazioni, livorose lagnanze verso la vita. Il concerto e lo sconcerto (pubblico e privato) di un momento non troppo facile.

04/06/12

Scritture. Giornalismo e/o letteratura

Su questa stessa pagina domenicale, giusto la volta scorsa avemmo modo di parlare del rapporto tra letteratura e mafie, tra la necessità di raccontare (far conoscere) quel tipo di nefandezze e il rischio che la stessa narrazione possa, al di là delle buone intenzioni, alimentare un mito sbagliato. La questione di contenuto ne richiama poi un’altra di forma. Qual è il confine tra letteratura e giornalismo? E’, infatti, dalla fine dell’Ottocento – da quando cioè il giornalista, da pedissequo cronista diventa sempre più ‘narratore’ di notizie – che i due àmbiti vanno reciprocamente ad influenzarsi. Basti pensare a nomi come Theodore Dreiser o Jack London che, nati giornalisti, finirono per diventare letterati. Ed è celebre l’aut-aut posto da Gertrude Stein a Ernest Hemingway: bisogna scegliere tra l’essere scrittore o giornalista, perché entrambe le cose non sono possibili. Hemingway fece come meglio gli parve. Continuò a fare il corrispondente dal fronte e trasferì quella sua esperienza nel romanzo Per chi suona la campana. In ambedue i casi i risultati furono niente male. Dunque: il giornalismo è letteratura? In Italia provò a dirimere la controversia Benedetto Croce con il suo breve saggio Il giornalismo e la storia della letteratura (1910), definendo “espedienti pratici” i migliori esiti letterari di certe cronache, che però, a suo parere, non potevano dirsi Arte. Diversamente la pensò Antonio Gramsci, che, invece, individuò nella prosa giornalistica una sorta di liberazione dalla lingua ridondante di D’Annunzio. Sta di fatto che le due sfere avrebbero avuto reciproche e felici invasioni di campo firmate (citiamo fra i molti) Curzio Malaparte, Orio Vergani, Dino Buzzati, Achille Campanile, Arrigo Benedetti, Pier Paolo Pasolini, Guido Piovene, Alberto Arbasino. Memorabili i reportages dall’Urss di Italo Calvino, le cronache dal Vietnam di Oriana Fallaci, il racconto dell’allunaggio scritto da Alberto Moravia, fino ai resoconti del Giro d’Italia dovuti alla penna di un poeta, Alfonso Gatto, o di una raffinata scrittrice come Anna Maria Ortese. O ancora i resoconti delle Olimpiadi di Helsinki prodotti dallo stesso Calvino, dove un titolo come questo era già letteratura: “Sembravano uscire dalla preistoria gli uomini-gazzella della Giamaica”. Dinanzi ai brutti pezzi di cronaca nera che oggi siamo soliti leggere (e sopratutto vedere nei notiziari televisivi), bisognerebbe andare a rileggersi un articolo di Dino Buzzati del 1947 (“I bambini di Albenga”) dove, senza mai cedere al dolorismo e alla eccessiva drammatizzazione, si descrive lo strazio dei parenti di quelle 43 piccole vittime che persero la vita durante una gita in mare. Tutto ciò per dire che le due strade del giornalismo e della letteratura si sono spesso incrociate e continuano a farlo con risultati di indubbia qualità. Non prestate orecchio al solito e caustico Oscar Wilde, quando insinua che “La differenza tra giornalismo e letteratura è che il giornalismo non è leggibile e la letteratura non è letta”. Non è vero, o tantomeno è un ulteriore problema.