11/06/12

Quando non sono solo canzonette

A volte ritornano. Sono i ricordi musicali, le canzoni lasciate magari in pause da anni perché la vita ci ha distratto, chiamati a fare (ad ascoltare) altro. Per questi ‘disturbi dell’udito’ (ma l’origine è psicosomatica) gli inglesi hanno coniato un termine: earworms, si tratta cioè di ‘vermi dell’orecchio’. Ciascuno di noi può essere colpito dal fenomeno nei momenti più diversi della propria esistenza e soprattutto quando di quella stessa esistenza si tenti di montare il film: tagliando, riordinando le sequenze, pretendendo una regia. E’ allora che la colonna musicale parte, sfrigola, distorce, galleggia nelle sonorità del tempo andato. E i ‘vermi dell’orecchio’ o restano vili esserini o divengono farfalle. Insomma dalle canzoni non si può prescindere. Sono parte dei ricordi, del nostro castello sentimentale, persino delle nostre scelte di vita, delle opzioni ideali e politiche. Ne sappiamo qualcosa noi che dal battello festoso (e, però, inconcludente nella sua navigazione) del secondo Novecento ci siamo ritrovati sulle zattere alla deriva del nuovo millennio, sprovvisti pure di nuova musica a sostegno emotivo di una qualche rotta. Inevitabile, allora, è che tornino alla mente certe canzoni chiamate “dell’impegno”, definizione oggi un po’ patetica, come del resto penoso suona un loro riascolto. Eppure furono utili anch’esse a formare una coscienza sociale; e se non altro, venendo specificatamente all’ambito della musica, a migliorarne la qualità, i significati. Umberto Eco ricordando, ad esempio, la nascita nel 1957 dei Cantacronache (letterati quali Italo Calvino, Franco Fortini, Gianni Rodari, lo stesso Eco si misero a scrivere testi musicati da Sergio Liberovici, Fausto Amodei e Michele Straniero) sostiene che per quanto quella sia stata un’esperienza di nicchia, senza di essa la storia della canzone italiana sarebbe risultata diversa. A seguire giunsero infatti i cantautori, con una attenzione più ‘letteraria’ ai testi, operando una sutura tra sentimenti privati e pubblici, provocando una contagiosa effusione e con/fusione di stati d’animo. Guccini in un suo brano (Keaton, nell’album Bovary) dice che “parlavamo di com’era importante non essere solo musica e parole… di com’era importante che la gente non fosse una massa di persone sole”. E’ vero che c’era un unisono universale, tutti cantavamo la ‘stessa’ canzone. Soprattutto la canzone riuscì a interpretare un frangente storico, una temperie culturale, slanci e trasformazioni di un’epoca. Ma poiché la canzone esprime comunque il tempo in cui essa è prodotta, meriterà, senza sospirosi i remember, ascoltare ciò che ora si va cantando. Musica e parole, anche al di là delle intenzioni degli autori e dei fruitori, consuonano sempre con il presente, sono in ogni caso ‘musica di oggi’. Musica ‘impegnata’ almeno a riorganizzare dentro noi necessari sentimenti, dispersi pensieri, provvidenziali consolazioni, livorose lagnanze verso la vita. Il concerto e lo sconcerto (pubblico e privato) di un momento non troppo facile.

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