02/12/13

Burattini noi. Quella favola della metamorfosi

La cosa è nota. Quando al Collodi fu chiesto il perché di quel finale così moraleggiante di Pinocchio (“… e come ora sono contento di essere diventato un ragazzino per bene!”) egli disse che, sinceramente, non ricordava d’aver chiuso così il suo racconto. Pare, infatti, che il sentenzioso e apocrifo epilogo sia stato opera di Guido Biagi, anch’esso collaboratore del “Giornale per i bambini”, sulle cui pagine era uscita a puntate la Storia di un burattino. Perché la fantasiosa – per certi aspetti trasgressiva – favola non “poteva” terminare diversamente, in considerazione del fatto che a pubblicarla in volume era stata la Libreria Editrice Felice Paggi, “editore di libri tutti con la morale”. Dunque, Pinocchio apologo del bene e del male? Ma non solo. A 130 anni esatti dalla sua prima stampa sappiamo quante variegate esegesi siano state fatte del libro che, insieme a Bibbia e Corano, vanta il più alto numero di traduzioni nel mondo. Opera comunque complessa, che offre una pluralità di codici interpretativi, poiché, come ebbe a scrivere Benedetto Croce, “il legno, in cui è intagliato Pinocchio, è l’umanità, ed egli si rizza in piedi ed entra nella vita come l’uomo che intraprende il suo noviziato; fantoccio: ma tutto spirituale”. Oggi l’interpretazione del capolavoro collodiano che più sembrerebbe rappresentare il nostro tempo – tempo della fluidità, del transitorio, della instabilità – potrebbe essere quella che vede in Pinocchio l’emblema della metamorfosi. Legname inerte, burattino, cane da guardia, ciuco, cibo per pescecani, bestia da soma, infine bambino. Insomma, un personaggio mutevole, provvisorio, interinale. Anche le sue figure di riferimento (Geppetto, la Fata, il Grillo) sono presenze alterne, appaiono e scompaiono. Quel ceppo d’albero – che tale non è più – ha (avrebbe) un’anima. Una coscienza inespressa, in divenire. Un’identità che si costruisce di fuga in fuga, ad ogni trasformazione somatica, ma soprattutto a ogni consapevolezza di sé. Lui è continuamente ‘altro’ da ciò che era. Quante peripezie, paradossi, drammi, spensieratezze per raggiungere un’identità! Per arrivare ad essere un umano a tutti gli effetti. E qui, di solito, si apre il dibattito. Allorché alcuni sostengono che Pinocchio muoia proprio nel momento in cui viene ‘normalizzato’, ascritto al consorzio degli umani. Del resto anche per noi non risulta affatto chiaro quando la nostra condizione di “burattini”, di esseri in divenire, pervenga (per scelta) al grado umano, ad una qualità morale, al riconoscimento di regole condivise. Per dirci pure noi contenti di essere diventati persone: per bene.

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