22/10/12

Il gioco delle cose. Ai nostri occhi di ragazzi

C’è chi ricorderà un gioco, probabilmente fatto nella propria infanzia. Quello di guardare fisso cose, persone, situazioni quotidiane; e sorridere per come esse risultassero improvvisamente buffe, fuori posto, assurde. Fa tornare alla mente questo gioco, l’ultimo romanzo (L’incontro) di Michela Murgia, scrittrice di una prosa eccezionalmente sobria ed esatta, nonché bravissima a rappresentare certi micro-universi e quanto in essi vive, ora sopito ora destato da chissà quali eventi. Ad esempio nei piccoli paesi della sua Sardegna, dove, in ragione di un forte senso di appartenenza (che al contempo esclude e include), tutte le azioni, ancorché di singoli, sono coniugate al plurale noi. Dicevamo di tale capacità che la Murgia possiede nel saper cogliere (anche con ironia) e rivelare come nuove le piccole cose. E non a caso, ne L’incontro, affida questo esercizio a dei ragazzini, allo sguardo con cui loro vedono e interpretano la realtà, fino al gioco di bambini-non più bambini con cui si conclude il racconto. La Murgia si è così inserita in quel filone letterario che, giusto utilizzando l’ottica infantile/adolescenziale, guarda il mondo degli adulti per evidenziarne i paradossi, le storture, o per supplire ad una lettura di quello stesso universo che i suoi protagonisti (gli adulti) non riescono a fare. Di recente, diversi scrittori hanno prodotto romanzi sul tema. Ricordiamo Alessandro Baricco con Emmaus; Niccolò Ammaniti con Io non ho paura e Io e te (in questi giorni va nelle sale il film che ne ha tratto Bernardo Bertolucci), ma il genere ha padri nobili. Potremmo cominciare da Il garofano rosso di Vittorini, proseguire con Agostino e La disubbidienza di Moravia, il fondamentale Sentiero dei nidi di ragno e Il barone rampante di Calvino, e ancora Le parole tra noi leggere di Lalla Romano, L’isola di Arturo della Morante. Quindi giungere al trittico degli Anni difficili di Romano Bilenchi e, con lo scrittore toscano, scandagliare l’età più incompiuta e incerta dell’uomo, l’adolescenza (“il solo tempo in cui si sia imparato qualcosa”, diceva Proust), che nell’invenzione narrativa del Novecento italiano è un archetipo, una fase simbolica primaria. Basti leggere proprio Bilenchi, per capire come il tormento esistenziale dell’uomo sia già tutto contenuto e anticipato nell’età adolescenziale. Dalla lezione bilenchiana si apprende, infatti, che siccità e gelo
denudano le piante fino alla corteccia, rendendole però più forti ai rigori delle stagioni. Così è per l’uomo, allorché la verde esuberanza degli anni giovanili scolora e rattrappisce nella crudezza della vita adulta. L’adolescenza è crisi, passaggio, incertezza. La condizione umana ha nell’adolescenza il suo vaticinio, il doloroso annuncio; una incompiutezza in cui, però, ogni cosa pre-accade. Peccato che, una volta adulti, si protenda a rimuovere ciò che, da ragazzi, ci ha formato alla vita e informato su di essa. Perché in quella sorta di preveggenza e di educazione sentimentale, tutto era spiegato. Forse tutto si era già compiuto.

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