08/03/10
Elsa Morante. Una invettiva tenera e imperiosa
Nel 1974 critici letterari e colti lettori mostravano sui loro tavoli da studio un anti-romanzo di Paolo Volponi (Corporale) contraddistinto da arditezze tecnico-narrative, da una forma spiazzante, tanto confusa quanto suggestiva. Altrove, magari negli spazi più defilati delle camere da letto, non potevano però tralasciare la lettura di un corposo feuilleton (così venne definito con sufficienza) di Elsa Morante, intitolato La Storia. I critici lo stroncarono per quanto fosse ottocentesco e popolare, istigante (secondo Italo Calvino) pianto e commozione al pari dei Miserabili, una insistita “vendita di disperazione” (Rossana Rossanda), una Morante che (a detta di Cesare Cases) smentiva con quel libro i suoi precedenti ed apprezzati esiti ottenuti, ad esempio, con Menzogna e sortilegio.
Fummo tra i lettori de La Storia, ma non versammo lacrime. Prevalse in noi, piuttosto, la sintonia con il moto di anarchia (formale e di contenuto) presente in quelle pagine. Come ebbe modo di osservare Cesare Garboli, tale scelta di grande violenza narrativa, così ferma, netta e imperiosa, non poteva che essere compiuta da una donna. Ed è vero. Nel racconto della Morante c’è la disperata tenerezza e la tenacia femminile che di fronte ai drammi sa emergere. C’è il grido e la tenerezza, l’accusa e la pietà, la grinta e lo sconcerto. Tutto ciò lo si percepisce in un timbro di voce, in una fisicità appunto femminile: perché solo la donna, proprio in ragione del suo essere, ha titolo per denunciare il continuo eccidio di innocenti compiuto dalla storia.
Per altri versi la Morante ci aveva già avvertiti (1968) con Il mondo salvato dai ragazzini (un titolo quanto mai esplicito) che gli adulti, ovvero coloro che esercitano qualsiasi tipo di potere, sono percorsi da un vizio degradante che li conduce alla cecità rispetto al mondo reale; e altro non divengono se non fabbricanti di morte.
Anche nel caso de Il mondo salvato dai ragazzini l’autrice usa un linguaggio estremamente comunicativo, “antagonistico”, senza i conforti – dirà sempre Garboli – di quella che il nostro secolo ha legiferato, e consacrato, come “religione della letteratura”. Nasce da qui lo “scandalo letterario” della Morante, di una donna che ha assunto in sé la disperata domanda di un mondo intero, la tragedia di una coscienza collettiva, congedandosi così dalla sua struggente invettiva (sono questi gli ultimi versi de Il mondo salvato dai ragazzini): “E adesso, o voi che avete ascoltato queste canzoni, / perdonatemi se sospiro ripensando / a quanto era stata semplice / la mia vita”.
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