31/05/10

La scuola raccontata. Insegnanti di carta maestri di vita


Questa volta non vorremmo parlare delle modalità con cui la letteratura accede alle aule scolastiche, ma di come la scuola sia entrata nella letteratura. Va subito detto che su di noi cresciuti a Pinocchio, Gian Burrasca e libro Cuore, la narrativa d’ambientazione scolastica esercitò la sua prima pedagogica lezione facendoci sì divertire, ma iniettando anche un sottile ricatto morale. Nel senso che pure a noi sarebbe piaciuto mettere la pece sotto le chiappe del vicino di banco, emulare le infrazioni del burattino collodiano o solidarizzare con il mitico casinista Franti. Però, fatta la risatina, a prevalere dovevano essere sentimenti e coscienza tali da formarci come cittadini rispettosi delle autorità (genitoriali e pubbliche), pronti al sacrificio (se non addirittura all’eroismo), forti nelle sventure, compassionevoli verso il prossimo. Così che fosse chiara la funzione educativa della scuola e il tipo di cittadini che essa andava a crescere. Inutile negare che il modello pedagogico del maestro Perboni segnò generazioni intere di italiani. Peraltro – merita ricordarlo nell’imminenza del centocinquantesimo dell’unità d’Italia – De Amicis, dopo 25 anni da quella sofferta unificazione, intese produrre un’opera letteraria che attraverso certi ideali, sentimenti, messaggi e linguaggi, contribuisse ad una reale unificazione del Paese. E indubbiamente vi riuscì, mirando dritto al… cuore.
Altri (cattivi?) maestri ci avrebbero poi accompagnato nella vita. Dal cechoviano Platonov che annega nell’alcol la sua inadeguatezza nel saper corrispondere amore, a quel triste Maestro di Vigevano (efficace quadretto al tempo del boom economico) che, nato educatore “per missione”, diviene un furfante quanto incapace padroncino, per tornare nel ruolo (modesto ma a lui più congeniale) di maestro. L’insegnante più terribile in cui ci siamo imbattuti resta comunque il professore che nella Leçon di Eugène Ionesco anziché trasmettere conoscenze (e certezze) si fa, al contrario, soggetto disorientante. Usa le sue nozioni in modo assurdo, ambiguo, mostruoso, fino ad annientare (uccidere) l’allieva. Una sagace metafora per denunciare un sistema sociale e i ruoli che esso assegna: credibili nella forma, ma snaturati nella sostanza. Davvero una lezione: ad ammonire che il sapere può anche deviare in aggressivo esercizio di potere compiuto attraverso la mistificazione del linguaggio. Se tale è il rischio che corriamo, a-ridateci subito il maestro Perboni (nomen omen) con il suo buonismo odoroso di stantio come i salottini di una piccola e grama borghesia.

24/05/10

Le chiavi del tesoro. Sotto la lingua dei poeti



Giunsi alla lettura del Corano per interposta poesia, allorché a un mercatino dell’usato incappai nell’edizione italiana (Laterza, 1949) de Il collare della colomba di Ibn Hazm, poeta arabo andaluso vissuto tra il 994 e il 1064. Un capolavoro della letteratura araba medievale in cui dolori e piaceri dell’amore trovano una tensione lirica carica di sensualità, e anche qualcosa di più. Da quelle pagine mi avventurai nella poesia dei Sufi, in un universo letterario che si dice non fine a se stesso, ma vòlto alla ricerca del Vero. Poesia dell’indicibile, dell’ebbrezza (jadhb, attrazione nel Divino) e che conduce laddove “il sale, lo zucchero o il miele disciolti nell'acqua diventano l'acqua”. E approdai così anche al Corano, a certi folgoranti versetti attraversati dal fremito della Rivelazione, alla parola di Allah trasmessa a Maometto in “chiara lingua araba”. Parole – come si sa – non destinate alla lettura, ma affidate a una salmodiata recitazione che da pause, respiri e modulazioni sapientemente dosati, faccia scaturire le molteplici suggestioni del testo.
A noi “infedeli” (ma fedeli alla parola poetica) affascinano sopratutto le cosiddette sure “meccane” (nate al tempo della prima impetuosa predicazione del Profeta) così ricche di ritmo, di slanci mistici, immaginose, criptiche. Decisamente meno ci avvincono le pedanti sure “medinesi” in cui la poesia cede il passo alla retorica predicatoria, alle sciatte liste dei precetti. Ma del resto i musulmani sono chiari: il Corano non è né poesia né prosa: è parola intraducibile. E quanto ai poeti, si sappia che “sono i traviati che li seguono”. Anche se poi il Profeta Muhammad dirà che: “Allah ha dei tesori sotto il Suo trono, le cui chiavi si trovano sotto la lingua dei poeti”.
Certo è che la lingua del Corano ha rappresentato per il mondo arabo un vero e proprio prototipo letterario. Un modello che anche sugli occidentali ha esercitato forti attrattive. Verrebbe in mente, al proposito, Johann Wolfang Goethe con la sua (e di Marianne Willemer) opera in versi West-östlicher Divan ("Il divano occidentale orientale"). Pagine attraversate da una brezza levantina che incrocia, appunto, l’Occidente. Ed è – per dirla con Goethe – “incondizionato abbandono all'insondabile volontà di Dio…, inclinazione che ondeggia tra due mondi, tutto il reale spiegato e risolto nel simbolo”. Visto il frangente storico non sarebbe male che su quel divano potesse sostare il mondo. Giusto il tempo per reinventarsi un Dio liberato da religioni che paradossalmente lo negano ogni qualvolta (malamente) lo proclamano.

10/05/10

Non solo virtuale. Per un avvenire della memoria


“La memoria, svelata”. Questo il motivo conduttore del Salone internazionale del Libro 2010 che si svolgerà nei prossimi giorni a Torino. Un tema su cui si è ritenuto di dover riflettere poiché, mentre da un lato disponiamo di smisurate banche dati, per altri versi il nostro rapporto con il passato è divenuto problematico, cosparso di continue amnesie. Oppure inutilmente nostalgico, a volte indossato con il vezzo di un abitino vintage.
Fin troppo facile è collegare il tema della memoria ai libri, che di qualsiasi genere essi siano fissano e riorganizzano proprio un comune patrimonio mnemonico. Solo per limitarsi a quelli di narrativa, basti pensare (Proust docet) a come essi, giustappunto nella memoria, trovino il loro primo motore.
Già altre volte abbiamo avuto modo di dire in che modo la lettura costituisca lo strumento per “comprendere” la nostra esperienza esistenziale, attribuirle un significato e, non di meno, raccordarla a una storia (individuale e collettiva) che prescinda dalla cronologia, dalla scansione lineare di passato, presente e futuro, per diventare, invece, “simultanea”. Scriveva Virginia Woolf in Orlando: "La memoria è la cucitrice ed è anche capricciosa. La memoria fa correre il suo ago dentro e fuori, su e giù, qua e là. Non sappiamo cosa verrà dopo o cosa seguirà”.
Il fascino (e l’utilità) dei libri è che, lungo il filo della memoria, raccontano di noi anche quando parlino d’altro. Nascite, morti, fatti ci attraversano, svelano la nostra “singolarità” e, al contempo, la “molteplicità” che è in noi. Una cosa, infatti, è il tempo della storia, altro è quello della memoria.
Al di là di ogni fraintendimento, è la memoria (non il semplice ricordo) a liberare veramente dai rimpianti e a renderci contemporanei nella nostra completezza di passato e di futuro. Merita, allora, ribadire come la lettura costituisca un ambito privilegiato in cui sia possibile rielaborare un universo interiore, una identità, una costruzione del proprio essere nel tempo presente, che, però, di questo tempo sappia evitare le nevrosi, la superficialità, la frammentazione, tipici di chi ha difficoltà a rapportarsi con il passato e di progettare futuro. Tutto ciò costituisce, peraltro, un atto di generosità nei confronti delle nuove generazioni, verso cui è tantomeno doveroso consegnare un patrimonio di conoscenze e di sentimenti. Non sarà sufficiente lasciare loro delle sterminate banche-dati che rischiano di essere inservibili perché prive di quella chiave di accesso racchiusa nella parola “consapevolezza”: di se stessi e del mondo. Si sappia, insomma, che dovrà pur esistere un avvenire della memoria.