31/01/11

Censura. Quel delitto di lesa anima


La censura è di per sé una scemenza, poiché è ampiamente dimostrato come non esista parola più “pericolosa” di quella proibita. La divertente lezioncina di Mark Twain potrebbe risultare istruttiva: “Adamo non voleva la mela per amore della mela. La voleva soltanto perché era proibita. Lo sbaglio fu di non proibirgli il serpente, perché allora avrebbe mangiato il serpente”. Chissà se fu per il rischio di questa ilare interpretazione che la Chiesa arrivò a mettere al rogo pure le edizioni in volgare della Bibbia. Accadde ancora di peggio quando sui falò pose direttamente gli autori di libri ritenuti contrari alla dottrina: ne seppe qualcosa il teologo Jan Hus (1415). Venne praticato persino il rogo postumo, come nel caso di John Wyclif di cui si riesumarono i resti mortali per abbrustolirli e disperderli, poiché si riconobbe in lui l’ispiratore delle tesi eretiche del già ricordato Hus.
A questa foga censoria dettero il loro contributo anche i diversi regnanti. Ad esempio verso la metà del XVI secolo è per ordine di Carlo V e Filippo II che le Università di Parigi e di Loviano redigono i primi cataloghi di libri proibiti. Mentre nel 1543 la Repubblica di Venezia affidò agli Esecutori contro la bestemmia il controllo su tutto ciò che andava in stampa. E fece bestemmiare non poco tipografi e librai veneziani quanto compilato da monsignor Giovanni della Casa sotto il titolo di Catalogo di diverse opere, compositioni et libri, li quali come eretici, sospetti, impii et scandalosi si dichiarano dannati et prohibiti. Era impossibile fronteggiare l’ottusa intransigenza della censura. Ci provò nel 1557 un commissario di nome Michele Ghisileri che all’inquisitore di Genova tentò di spiegare come certi libri quali l’Orlando o il Decameron “non si leggono come cose a qual si habbi da credere ma come fabule”.
Vai un po’ a spiegarglielo...! Arrivò così il Sant’Uffizio a proibire Dante e addirittura i commentari di Pio II sul Concilio di Basilea; poi, a seguire, una fitta lista di autori che annoverò, tra i molti, Hugo, Dumas, Foscolo, Leopardi, fino a Sartre e Moravia.
Su altri fronti sarebbe difficile dimenticare gli orrori di cui fu capace la subdola ed efficiente censura sovietica. O, in tempi recenti, le fatwa islamiche contro Rashdie e Naipul. E per venire all’Italia, le goffe azioni repressive del fascismo, nonché quelle che seguirono nei primi decenni della riconquistata democrazia (cristiana, anzi beghina). Per tutti – ed anche per gli odierni catoni – valga il giudizio di Flaubert: l’attentato contro il pensiero è un crimine di lesa anima.

24/01/11

A somma gloria del sapere


Dal 1980, anno in cui fu pubblicato Il nome della rosa di Umberto Eco, il nostro immaginario di bibliofiliaci non può più prescindere da quello scriptorium dove l’ormai vecchio monaco Adso da Melk graffia l’ultima pergamena del racconto scrivendo: “Fa freddo, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (la rosa primigenia esiste in quanto nome, possediamo i semplici nomi). Criptica conclusione per dire che chiunque si ritenga depositario della verità può rendere la stessa verità quanto mai discutibile o addirittura risibile.
Fin troppo bravo è Umberto Eco a coinvolgerci nelle suggestioni di luoghi che ammiccano all’Abbazia benedettina di Melk, oggi in Austria, sede di una delle più importanti biblioteche d’Europa o allo scriptorium bobiense dell’Abbazia di San Colombano di Bobbio che fu soppresso dall’Inquisizione proprio per il suo patrimonio di libri con cui si intendeva documentare la “cultura universale”. Così come è chiara l’allusione alla borgesiana Biblioteca di Babele (biblioteca come specchio del mondo, contenuta in un edificio a pianta poligonale) mentre seguiamo le invettive di Jorge da Burgos che Eco fa muovere all’interno del disperante trinomio cecità, biblioteca, labirinto.
Fascino, dunque, del libro antico e degli ambienti dove nacque: gli scriptoria. Lì, appunto, venivano trascritti e confezionati libri la cui realizzazione poteva durare anche anni, con un maestro che di volta in volta suggeriva quali forme calligrafiche dovessero adottarsi, scritture dai seducenti nomi di “onciale”, “ben ventata”, “minuscola carolina”, “gotico antico”. Gli scriptores (non sempre competenti rispetto alle cose che andavano trascrivendo) potevano però commettere errori tali da rendere incomprensibile il testo. Allora avveniva la decora correctio, con una voce leggente l’antico testo per verificare la correttezza della versione appena effettuata. E poi altri monaci miniaturisti, chini a pigmentare capilettera e pagine con scene, ornamenti, grottesche.
Certo è che quando ci troviamo di fronte ad opere come l’Evangeliario di Lorsch (redatto tra il 778 e l’820 e detto Codex Aureus per la presenza di lettere in inchiostro dorato) si capisce ancor meglio perché in certe liturgie cristiane venisse incensato “il libro”. Ovviamente per le parole divine in esso comprese, ma non neghiamo come già la preziosità del suo aspetto potesse giustificare quel gesto tanto solenne, a somma gloria del sapere e di una bellezza pur soltanto esteriore.

17/01/11

Cronaca Nera. Se la vita è un caso irrisolto


Delitti, cronaca nera, voyeurismo, racconto popolare. Il tema è d’attualità ma non certo nuovo. Almeno per chi scrive questa nota, risale addirittura ai ricordi della propria infanzia, quando, a sera, il mio sonno bambino era ninnato dalle voci che giungevano dalla cucina dove mia madre (in un domestico Tg ante litteram) leggeva al babbo le cronache del “caso Montesi”. Ovvero la misteriosa morte di Wilma Montesi, avvenente ragazza romana di ventitré anni, figlia d’un falegname e fidanzata con un poliziotto, il cui corpo era stato rinvenuto esamine sulla spiaggia di Torvaianica la mattina dell’11 aprile 1953. Brutta storia di malcostume e intrighi politici che causò addirittura una crisi della prima Repubblica. I resoconti giornalistici della vicenda scatenarono le più morbose curiosità sulla illibatezza della giovane e su un reggicalze misteriosamente sparito.
All’epoca, in mancanza della spettacolarizzazione che nei decenni successivi (oggi ne abbiano superato veramente la soglia di decenza) sarebbe stata data dai mass media alla cronaca nera, ci si organizzava, dunque, come si poteva. Ma l’elemento antropologico e psicologico che faceva da molla non era diverso da quello odierno: sbirciare le altrui sciagure in modo insistito e pruriginoso, così da soddisfare voyeurismo e autoassoluzione morale (noi non siamo come loro).
Se poi la questione vogliamo spostarla dal piano sociologico a quello culturale, la cronaca nera, con il suo bagaglio di vicende e narrazioni, offre di che riflettere. Verrebbe subito da pensare a In cold blood (“A sangue freddo”) di Truman Capote, in cui si racconta l’assassinio di un’intera famiglia realmente avvenuto in Kansas. Un romanzo inizialmente pubblicato a puntate sul New Yorker e che suscitò molteplici polemiche di natura letteraria ed etica per come l’autore, con cinico voyeurismo, si diffondesse nel racconto di quel brutale fatto di cronaca nera. E’ forse il primo romanzo-reportage della storia della letteratura attraverso cui si vuole dire quanto il racconto crudo (oggettivo) della cronaca possa surclassare la narrazione romanzesca.
Ma come ci suggerirà Gadda con Quer pasticciaccio brutto di via Merulana (un capolavoro anche dal punto di vista dell’invenzione linguistica) la realtà è molto più complessa della sua evidenza, della cosiddetta “buccia delle cose”. L’universo contraddittorio e oscuro dell’uomo è comunque e sempre un giallo irrisolto, un pasticciaccio appunto. Forse per questo motivo la cronaca nera avrebbe una sua ragione d’essere: non tanto per alimentare morbosità, ma compassione.

10/01/11

La vita e gli anni. Andare con il tempo


All’inizio fu la klepsýdra, che in greco significa letteralmente "ruba-acqua". Un contenitore di pietra a forma conica che attraverso un foro faceva passare acqua e dove una scalettatura di segni stava a indicare il trascorrere delle ore. Certo è che il pur rudimentale strumento rendeva efficacemente l’idea che il tempo non “passa” ma fluisce. E già questa distinzione allude a quanto sia difficile definire il tempo in termini filosofici. Tant’è che anche Agostino d’Ippona rinunciò all’impresa, affermando di sapere bene cosa fosse il tempo, ma di essere assolutamente incapace di spiegarlo.
Forse, proprio per questa difficoltà a definire ciò che racchiude in sé l’attimo e l’eternità, l’uomo si è inventato sistemi di misurabilità del tempo che così diano l’illusione di dominarlo o, tanto meno, di organizzarlo. Da qui l’idea convenzionale della cronologia, quasi per rassicurarci, ogni qualvolta la nostra psiche possa trovarsi sull’angosciante precipizio del “nulla”, che noi esistiamo in questo presente, frutto di un passato e ragione di uno speranzoso futuro.
Ecco, persino il pappagallesco augurio che ci siamo scambiati solo qualche giorno fa (“buona fine e miglior principio”) rivela, nel profondo, il comprensibile tremore rispetto all’incognita del tempo che vorremmo non solo misurabile sui calendari, ma “commisurato” alle nostre esistenze. Ad ogni fine d’anno ci troviamo nei panni del leopardiano passeggere cui un venditore di almanacchi offre la sua merce (“Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?) e al quale viene chiesta soprattutto una risposta certa sulla felicità dei giorni futuri. Però, in proposito, il venditore di almanacchi non prende troppi impegni. Il dialogo tra i due si incupisce nel ripensare al tempo trascorso, contrassegnato più che altro da vicende dolorose, finché alla modica spesa di 30 soldi (tanto costava l’almanacco più bello) il passeggere compra anche un po’ di speranza: “Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?”.
Se tale è la rendita ricavabile da un modesto investimento di 30 soldi ci possiamo stare. Anche perché, in quella speranza, pare risiedere l’unica possibilità non certo di dominare il tempo, ma di esserne in qualche modo partecipi, sincroni al suo fluire. Così che una scheggia dell’infinito tempo vada a coincidere con il “nostro” tempo.