03/08/09
Caro diario. Racconto in rete di se stessi
In principio fu il cosiddetto diario intimo. Un modo, cioè, per parlare a “qualcuno” di se stessi, della realtà vissuta e delle fantasie personali. Un escamotage per sopravvivere magari a qualche malessere esistenziale, per alimentare il Narciso che vive dentro ciascuno di noi o per arginare quel solipsismo al di qua di una ragionevole soglia oltre la quale esso diverrebbe patologia. Insomma una buona trovata per chiamare “tu” il proprio “io” e per nobilitare in forma letteraria quel finto dialogo. Al punto che alcuni di questi diari, in virtù dei loro estensori, sono poi diventati davvero letteratura. E’ il caso di titoli quali Il mestiere di vivere di Cesare Pavese (pagine – diceva il loro autore – poste a “difesa contro le offese della vita”), La tregua di Primo Levi, il noto e drammatico Diario di Anna Frank, o ancora Latinoamericana di Ernesto Che Guevara, Microservi di Douglas Copland, Buonanotte signor Lenin di Tiziano Terzani.
Scritti intimi, dunque, che una volta trapelati dalla segretezza dei cassetti (i titolari di quel riserbo, però, fin da subito ne auspicavano una fuoriuscita) sono diventati non più vicenda personale ma storia di molti.
Non ci è dato sapere quanto oggi continui ad essere in uso il diario (inteso come supporto cartaceo) cui affidare il racconto di sé. E’ tuttavia evidente l’incontenibile esercizio del parlare di se stessi attraverso pagine virtuali come quelle veicolate da blog e twitter. Definizioni che tradotte nella nostra lingua (“traccia su rete”, “cinguettii”) già indicano un bisogno di “esserci” e di comunicare. Ecco allora questi nuovi diari i cui autori non ricorrono nemmeno più al giochino del nascondimento (ti occulto sperando che qualcuno ti trovi), ma che intendono subito rivelarsi agli altri, perché invocando, attraverso la rete, una sorta di riconoscimento universale, sia forse più facile giungere all’accettazione di se stessi. Questa, però, è materia di psicologi. A noi interessa, piuttosto, il risvolto “letterario” del fenomeno, poiché tale modo di raccontarsi sta trasformando addirittura lessico e sintassi, finanche la grafia (quella a mano, quando ancora la si adoperi). Inoltre si sta quasi costituendo una forma di “pragmatismo” narrativo, attagliato, appunto, sul bla-bla delle cronache individuali e quindi tutto declinato al presente, quasi a voler negare la probabilità di un tempo storico, di un “prima” e “dopo” noi. Si intende così descrivere una contingenza egocentrica, frammentata e disperatamente effimera. E un dubbio sorge: che anche questo neo-minimalismo possa produrre comunque letteratura.
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1 commento:
sento spesso parlare di questo pericolo insito nelle nuove forme di comunicazione, specie in chi non ha un retroterra composto di letture e macchine per scrivere. E' il rischio di veder decadere la nostra amata lingua, rischio paventato credo ad ogni generazione, ma che comunque fino ad ora ha comunque prodotto una letteratura. Certo, l'innovazione linguistica è anche un contenuto e ci sono esempi magistrali anche tra i 'vecchi'.
Ma che succede adesso?
Se scorro i messaggi allegati a molti video su Youtube o su altri social network, o le comunicazioni via SMS, mi corre un brivido lungo la schiena.
La rivoluzione accelera. Esiste un'età d'oro della lingua alla quale fare riferimento?
Queste abbreviazioni spinte, anglicizzazioni, storpiature, sono, è vero, fisiologiche del nuovo che avanza, ma sono sempre un processo irreversibile?
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