25/05/09

In “sincopate” pagine. Quello stato d’animo chiamato jazz


Conobbi il jazz in età giovanile e per interposta emozione: quella letteraria (Pavese, Soldati, Bertolucci). Dai libri, infatti, compresi che il jazz era innanzi tutto uno stato d’animo, un modello estetico e di comportamento, ed era… l’America. Allora non avevo ancora del tutto chiaro cosa esattamente fosse accaduto nei primi decenni del Novecento, mi mancava la piena cognizione della storia ma non del “sentimento” (e della sua musica) che quella storia aveva spinto a superarsi in un “nuovo mondo”. E’ abbastanza normale che da giovani si percepiscano le cose senza saperle spiegare e ho dovuto aspettare la maturità per farmi rivelare dal trombettista Tim Tooney (leggasi Novecento di Alessandro Baricco) che se ascoltando una musica “non sai cos’è, allora è jazz”.
Insomma mi accadde qualcosa di simile a ciò che era successo ai ragazzi che avevano visto lo sbarco degli americani in Italia, affascinati non solo dai gracchianti V disc di musica jazz, ma – lo ricorda Pupi Avati – altrettanto presi da chi aveva parlato e scritto di quella musica.
Così, per quanto mi riguarda, già in Cesare Pavese ebbi la possibilità di sentire qualcosa dell’epos jazzistico d’America: “Tutta l’anima mia / rabbrividisce e trema e s’abbandona / al saxofono rauco. / E’ una donna in balia di un amante, una foglia / dentro il vento, un miracolo / una musica anch’essa” (A solo, di saxofono). Negli Strumenti di Attilio Bertolucci il saxofono era invece “torbido grido / di un mulatto vestito di cotone”, mentre un banjo suonato da “una mano monca” splendeva di “lunare nostalgia”. Perfino la descrizione piuttosto cartolinesca di Harlem redatta da un giovane Mario Soldati non mancava di un suo fascino, con il racconto di lussuose limousines che scaricavano dame e gentiluomini venuti “a pescare un po’ di brivido” in eleganti locali dove suonava un certo Duke Ellington. O meglio ancora quando Soldati, spintosi nei bassifondi per ascoltare veri jazzmen, scriveva: “Strepiti, risa, richiami mi turbinano attorno e mi stordisce la musica, frenetica, sussultoria, galvanizzata a intermittenze irregolari dalle laceranti scariche degli ottoni”.
Poi, dentro le nostre camerette tappezzate a miti, sarebbe arrivato Jack Kerouac e la sua prosa “spontanea”, a tratti bop. (quasi un jazz trasposto a scrittura letteraria). E ancora l’America romantica e ribelle tradotta da Fernanda Pivano. Anni in cui un buon blues aiutava molto a colmare la distanza fra sogno e realtà, convinti con Miles Davis che (nella musica come nella vita) si dovesse suonare ciò che mancava e non quello che ormai c’era.

11/05/09

Il cibo raccontato. Aprire un libro per leggere… di gusto


Già il fatto che in epoca quattro-cinquecentesca sia esistita una poesia… maccheronica (un bel pasticcio di lingua italiana ripassata in latino) la dice lunga sul rapporto tra letteratura e cucina. Battute a parte non si possono davvero ignorare i significati culturali del cibo. In esso, infatti, sono rappresentate vere e proprie metafore sociali, differenze e identità di gruppo, modi e tempi di socializzazione, linguaggi e parole. E quindi letteratura.
La bibliografia in materia è ricca di prelibatezze. Verrebbe da cominciare, ad esempio, con quella Cena di Trimalcione che ad un’analisi letteraria (da preferire senz’altro a quella dei trigliceridi) mostra l’efficacia teatrale e grottesca che può assumere la descrizione del cibo. Non certo ai livelli esagerati di Petronio, ma anche Boccaccio nel suo Decamerone non fa mancare niente sulla tavola: soprattutto prelibati arrosti abbinati a ottimo vino, come la bella lingua che quelle novelle ha costruito in coerenza tra forma e contenuto.
Del resto mangiar bene è un’arte, e non di meno è lo scriverne, come dimostrò Pellegrino Artusi offrendo una nutrita (e nutriente) raccolta di ricette alla borghesia di fine Ottocento che volentieri sedette a tavola più per fama (ovvero per affermazione di se stessa) che per fame.
La lista delle leccornie letterarie sarebbe davvero lunga. Proseguendo per assaggini meriterebbe piluccare dalla tavola di Nero Wolfe una raffinata insalata brasiliana di aragosta. Mentre, almeno per quanto ci riguarda, eviteremmo “il sapore dell’olio rifritto che aveva fatto da base a una paella cucinata da uno specialista in scienze naturali, ossessionato dall’idea di combinare tutta la botanica e tutta la zoologia possibile in un solo piatto”, quale ce la serve l’insuperabile Manuel Vasquez Montalban (“Il centravanti è stato assassinato verso sera”). Per noi ghiotti di dolci e di Proust non sarà invece da tralasciare quel soffice dolcetto a forma di conchiglia detto “madeleine” che intinto in una tazza di tè fa assaporare nella Recherche i lontani ricordi dell’infanzia.
Parlare di cucina è parlare di vita e non è a sproposito che convito voglia significare “vivere insieme”, perfino riappacificarsi con se stessi e con gli altri. Ricorderete quel miracolo della riconciliazione raccontato da Karen Blixen nel Pranzo di Babette, durante il quale ciascun convitato rivela il meglio di sé, abbandona il ghigno dei rancori e sembra finalmente capire che le cose dello spirito non sono alternative a quelle della carne.

04/05/09

Da Alessandria a Babele. Immaginare un luogo con il Sapere del mondo


Con la parola biblioteca si accendono subito due suggestioni. La visione di ciò che doveva essere quella antica di Alessandria d’Egitto (III secolo avanti Cristo) e l’ancor più immaginaria Biblioteca di Babele scaturita dalla angosciante fantasia di Borges.
Pare fosse stato il filosofo Aristotele a suggerire l’idea a Tolomeo I che in Alessandria dovesse esistere un luogo in grado di contenere tutta la linfa del Sapere, il conoscibile che poteva essere reperito in giro per il mondo. Si giunse così ad una raccolta di oltre 700.000 rotoli di papiro che da Omero in poi documentavano e raccontavano la civiltà. E intorno a quei rotoli nacque un vero e proprio polo culturale dove non ci si limitava soltanto a conservare conoscenze, ma anche a ragionarle: tanto che un bibliotecario-sovrintendente guidava un nutrito gruppo di grammatici e filologi nella elaborazione e produzione di edizioni critiche delle opere là custodite. Ecco allora comparire anche i primi “topi di biblioteca”, come Eratostene che, senza mettere il naso fuori da Alessandria ma solo nei papiri degli srotolabili saperi, riuscì a stabilire quanto misurasse la circonferenza della Terra, disegnò con discreta approssimazione la prima carta geografica delle terre abitate e, arguendo che la Terra fosse rotonda, indicò anche una possibile rotta per giungere dalla Spagna all’India.
Se dunque è antica l’aspirazione a voler raccogliere tutto il Sapere del mondo, ben oltre si spinse Jorge Luis Borges con il suo racconto fantastico La Biblioteca di Babele, dove la biblioteca stessa va a coincidere con l’Universo. Un universo allucinante e spazialmente infinito, composto di sale esagonali, che raccoglie in ordine sparso tutti i possibili libri, rigorosamente formati da 410 pagine, in cui, alla rinfusa, si sviluppano sequenze di caratteri in ogni possibile combinazione. Tutto ciò per dire (era questa l’ossessione filosofica di Borges) che esiste un mondo-biblioteca in cui è compresa la vita di ciascun individuo e come la nostra vita sia una storia che un Dio-romanziere-sconosciuto (“divinidad que delira”) scrive con penna indefinita e infinita.
Ergo. Per sfuggire proprio a quella borgesiana vertigine filosofica, sarà bene, ogni volta che si entri in una biblioteca, osservare con attenzione le “vie di fuga”, rinviando magari alla volta successiva (tanto la biblioteca del Dubbio e della Conoscenza non osserva turni di chiusura) la ricerca del libro che spieghi il Tutto. Uscire, dunque, appena in tempo per non fare (almeno in spirito) la fine del topo… di biblioteca.