14/03/11

Storie di matti. Maso che sentiva i treni


Tutti lo chiamavano Maso. Uno tra i molti coatti nell’ospedale psichiatrico San Niccolò, vera e ‘altra’ cittadella sorta su un appartato margine della città vecchia. Maso era matto, ma non troppo; così che lui poteva varcare tutti i giorni i saldi cancelli della contenzione e percorrere il tratto di ‘normalità’ che lo portava fino al vicino convento dei Servi dove, vestito di una spolverina giallognola, arrancava in modeste incombenze tra le stanze conventuali e la basilica. Prediligeva fermarsi davanti alla cappella in cui campeggia una inquietante Strage degli innocenti e da lì, con la sua risata sdentata e sublime, far partecipi gli altri di tutte le cose che lui ‘vedeva’. Come quando, in occasione del restauro della chiesa, cavarono da sotto il pavimento diversi mucchietti d’ossa (reperti di pie sepolture) e lui vide ovunque donne morte tutte nude e dettagli anatomici che lo esaltavano in un exultet tanto blasfemo quanto innocente. Maso rideva rideva. E nella sacrale penombra sembrava riproporsi una sorta di risus paschalis, quella antica usanza alemanna, in cui, durante la liturgia pasquale, il celebrante provocava crasse risate dei fedeli dicendo e facendo dall’altare incredibili sconcezze. Rito che, al di là del comprensibile imbarazzo, aveva forse in sé il richiamo ad un divino e originario stato della carne e del piacere.
Maso era il fool, il folle, lo stolto, il diverso con licenza di essere demone e angelo. Colui al quale è concessa libertà di parola e impunità. Stava in piedi con un interrotto dondolio, quasi ad accondiscendere il beccheggio di quella ‘stultifera navis’, bene scrutata da Michel Foucault (si legga il suo fondamentale saggio Storia della follia nell’età classica) sulla quale – deriva di esistenze – venivano imbarcati i reietti, gli esclusi che la società intendeva allontanare.
Certe volte il matto del convento dei Servi badava ripetere: ‘oggi si sente il treno’. Lo diceva con un accento così ispirato da far venire in mente lo stesso treno che nel delirante Sogno di prigione di Dino Campana “[…] si sgonfia arriva in silenzio, è fermo: la porpora del treno morde la notte […] poi tutto, mi pare, si muta in rombo: Da un finestrino in fuga io? Io ch’alzo le braccia nella luce!!”.
Un giorno di un’estate esageratamente calda (l’avamposto delle cicale a ridosso della città murata risuonava come un convegno di ossesse) accadde che nessuno vide Maso traccheggiare nel suo consueto viottolo di normalità, dal manicomio al convento. Aveva sentito il treno, e quella volta c’era salito.

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