05/11/12

Sentimenti universali. Quando muore un artista

E’ morto Hans Werner Henze, a detta di molti il più grande compositore del nostro tempo, il maggiore Maestro contemporaneo d’opera, della parola musicata. Di lui, fin dalle prime composizioni, aveva sempre meravigliato la capacità di dominare tutti gli stili musicali, passando dal ‘serialismo’ schöenberghiano al ‘pastiche’ neoclassico, dal jazz al contrappunto tradizionale, come dimostra la sua prima opera Boulevard Solitude (1952). Un compositore eclettico, senza pregiudizi, amante della contaminazione dei linguaggi. Sorprendenti erano il suo immaginario musicale e quel virtuosismo tecnico che riuscivano a produrre intense emozioni. Henze credeva inoltre alla musica che testimonia valori umani. Non a caso le sue più fervide creazioni appaiono quelle dove la musica entra in simbiosi con il testo, per dire qualcosa di importante, per pronunciarsi in termini etici, morali. Vengono in mente opere quali El cimarrón (1969-1970) tratto dal diario di uno schiavo cubano o le “azioni per musica” We come to the River (“Andiamo al fiume”, 1976) ispirate alla guerra del Vietnam. O ancora le musiche per il film Il caso Katharina Blum (1975) di Margarithe von Trotta, atto d’accusa nei confronti di un certo giornalismo senza scrupoli e del clima di caccia alle streghe scatenatosi in Germania alla metà degli anni Settanta. Paola Isotta, sul Corriere della Sera, ha affermato che la morte di Henze rappresenta, per certi aspetti, la morte della Musica stessa. Senza dubbio è stato il compositore che ha significativamente contribuito a cambiare la musica del Novecento, a spalancarla su molteplici prospettive. E’ insomma scomparso un sommo artista e – così accade sempre in tali casi – si avverte ora una sensazione di impoverimento. Bene disse Marcel Proust: “Il mondo non è stato creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale”. Da ciò, quando un artista muore, la percezione di perdita e il ritorno del pensiero su quanto poco l’arte sia considerata un bene primario, indispensabile, salvifico. E’ infatti l’artista a fornirci la consapevolezza del bello e della meraviglia, l’espressione giusta per dire l’indicibile, per rivelare l’inespresso che è dentro noi. Nell’arte risiede la coscienza del mondo, la sua spiegazione, il modo di raccontarlo e di farne memoria. Basterebbe l’arte per riconciliare i conflitti, per spiegare le ragioni delle diversità, far comunicare uomini e linguaggi, fornire ‘argomenti’ indiscutibili sulla bontà del vivere in pace. Ecco perché la morte di un artista lascia un senso di orfananza, di lutto individuale e condiviso. Quasi venga a mancare, improvvisamente, l’interprete che per noi sa esprimere le emozioni, mettendoci in relazione con il sentimento universale che il tempo ha elaborato, arricchito, ma mai esplorato fino in fondo. Tanto vitale è tutto questo, che se venisse meno sarebbe come ridurre l’esistenza a mera vita artificiale. Sinfonia incompiuta che nessuno, a quel punto, potrebbe ascoltare, né tanto meno proseguire. Il silenzio del Nulla.

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