02/02/09

Ermi colli e quant’altro. Il paesaggio letterario fra “pubblico” e “privato”


Con quel “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”, Giacomo Leopardi ci mise bene del suo a far sì che un idillio non fosse meramente… idiallico e che, quindi, in letteratura il paesaggio divenisse non solo descrizione pittoresca, ma una proiezione della propria interiorità. Del resto – si sfogli lo Zibaldone – il giovane Giacomo (siamo nell’estate del 1820) scrive che fin da bambino amava guardare il cielo “attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia”. Dunque, come a ciascuno di noi avrà senz’altro spiegato una fervente insegnante di lettere, il poeta al di là di quella siepe cerca anche ciò che non è visibile, poiché egli non intende certo raffigurare la natura, quanto, invece, il proprio io rapportandolo a una realtà spaziale e fisica, per ricercare, in essa e oltre, l’infinito.
Non è qui il caso di avventurarci in ulteriori congetture filosofiche (qualche spunto lo potremmo trovare magari nelle pagine delle Lezioni americane dove Italo Calvino fa, giusto, una interessante lettura dell’Infinito) e semplifichiamo dicendo che il gioco del “fuori” e del “dentro” sarà ciò che anche nel genere letterario del romanzo ricorrerà continuamente. Ogni qualvolta, cioè, l’autore “privatizzi”, riconduca a sé pezzi di paesaggio (spazi “esterni”) a tutto vantaggio degli “interni” che intende raccontare.
Non è sfuggita a questo artificio nemmeno Benedetta Cibrario nel suo romanzo Rossovermiglio, la cui protagonista fa della terra senese un recesso di anima, rifugiandovi il suo presente, la propria memoria e nostalgia, consapevole del fatto “[…] che c’è bellezza e bellezza; e questo vale anche per i luoghi, non solo le persone”. Pure la Cibrario, infatti, non si limita a porre sul paesaggio uno sterile sguardo di insieme, ma lo fagocita verso il “privato”, quasi in un tutt’uno con l’io narrante che si trova qui ed oggi.
Certo è che una storia del paesaggio letterario sarebbe interessante da ricostruire. Ha cominciato a farlo Michael Jakob nel suo libro Paesaggio e letteratura (Olschki Editore, 2005) dove, grazie ad una interpretazione diacronica che dall'antichità giunge fino al Romanticismo, egli fornisce una prima analisi del fenomeno, da cui si evince che il paesaggio, attraverso la costruzione verbale (e simbolica) praticata da un io narrante, viene così fatto proprio e solo in tal modo restituito agli altri. Lo scrittore, insomma, ha bisogno di impadronirsi dello spazio naturale, di unicizzarlo per poi poterlo condividere. Solo allora, in quel limine di finito e infinito, il naufragar gli sarà persino dolce.

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