23/02/09

“Lasciami, non trattenermi”. In un commovente congedo gli ultimi versi di Mario Luzi


E’ nelle librerie il volume di poesie inedite di Mario Luzi dallo struggente titolo “Lasciami, non trattenermi” (Garzanti). Raccoglie (per la cura di Stefano Verdino) i testi scritti dal Poeta nel suo ultimo anno di vita, quando una sorta di presentimento della fine sembrava suggerirgli – e ancora di più rispetto a quanto già fatto fino a quel momento – di portare all’essenzialità della riflessione e delle parole il suo intimo contraddittorio tra condizione umana e ciò che di irrisolto (di incompiuto) in essa si insinua. Una sorta di ininterrotto monologo non certo nuovo al sentimento che attraversa tutta la poesia di Luzi, ma che qui colpisce per come sia dichiaratamente autobiografico, legato agli accadimenti della propria esistenza, lancinante nei suoi interrogativi (“Dove / e come saremo? Si domandano / i pensieri. / Saremo ancora? / E lui, / creatura / oscura, tutto sa e tutto ignora”).
Anche in questi versi ultimi (e a maggior ragione) si ripropone il tema della fine e del ricominciamento (“La vita si trasforma in sé perpetuamente”) e ancora una volta tali pensieri trovano un “luogo” privilegiato nel paesaggio senese, laddove, cioè, la natura sa bene rappresentare il proprio dramma (che è poi quello dell’uomo) di luce e di ombre, poiché – fu Lorenzo Mondo a sottolinearlo con acume – Luzi “va disegnando così un universo purgatoriale di ombre ansiose in paesaggi aspri e desolati”. Per un’ennesima volta, dunque, i declivi della Val d’Arbia (Desiderium collium aeternorum) divengono teatro del dilemma (della preghiera?) del Poeta che dice: “Guardai quelle colline, / erano vere / o le aveva / un allungo celestiale / del pensiero / fatte nel sogno intravedere / tra le mire / del perenne desiderio?”.
Ci troviamo, insomma, dinanzi a un libro delle domande estreme che un grande vecchio (un “fedele all’infelicità” dice di se stesso), dall’anima per niente fiaccata, pone con dolore e intelligenza. Tale è il nerbo dell’interrogante e così “alta” la sua parola che torna in mente quanto Franco Fortini (altra figura autorevole di poeta e intellettuale del Novecento) ebbe a scrivere trent’anni fa su Luzi: “Intorno alla sua poesia si è sempre ascoltato un silenzio da veglia d’armi. Ogni volta che egli si inginocchia, senti sul marmo il tintinnio d’un ferro di spada”.
Ebbene, nel commosso tremore di quella invocazione (Lasciami, non trattenermi) pare udire tuttora il tinnire di un’arma bianca riposta (per sempre?) laddove “cala in sé l’essere, / giace / esatto / nella pace / della sua essenza…”.

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