30/03/09

Nessun uomo è un’isola. Nelle notti del mondo scoprirsi universali


Qualora non fosse già stato fatto, occorrerebbe scrivere un libro su un sentimento ben preciso. Quello che quotidianamente, nel momento in cui la notte convince se stessa a farsi notte, avvertono gli esseri umani, allorché il tremore di una fine se pur transitoria fa sentire il bisogno di essere accolti da persone e mura calde di affetti. E’ l’ora nella quale anche lo squallore delle periferie urbane pare bello, percorso com’è da una invisibile pietas verso la condizione umana. Tintinnano le stoviglie dei dopocena. Le finestre si accendono e spengono nella replica dello stesso film che così, alla buona, incrocia piccole anonime storie con la storia.
Ecco che da quelle nicchie domestiche, da tanto minimo e rassicurante vivere è finalmente possibile percepire il mondo non più come avverso, ma sodale alle nostre esistenze. Ci è dato un facile tempo per amare i lontani, i diversi, tutti coloro che (altrove e in altri momenti) sono magari percepiti come minaccia. E’ allora che il particulare del nostro microcosmo si riflette sui vetri dei televisori, quasi a confondersi nel baluginio della globalità. La pacifica risacca della notte, onda dopo onda, ci sottrae i margini della insularità per farci un tutt’uno con il mondo. E qualsiasi ultima resistenza (in verità esercitata nello sprofondo di un divano) cede alla consapevolezza di essere universali.
Dai palchetti delle librerie occhieggiano all’istante gli autori le cui pagine furono da noi compulsate in trascorse stagioni e che oggi offrono ancor maggiori ragioni al cuore. Claude Lévi-Strauss con la sua antropologia tesa a cogliere le strutture profonde, a-temporali dell’universo, dove (guai agli etnocentrismi!) ogni cultura può realizzare solo alcune delle potenzialità insite nell’umanità. E poi l’opera di Ernst Bloch, quasi un’invocazione continua a “ciò che non c’è ancora”, ovvero a quell’uomo “inedito” che ha da manifestarsi e che, secondo il filosofo tedesco, racchiude una speranza dal carattere conoscitivo e veggente, concreta e rivolta più al presente che al futuro. Perché tale è l'ideale utopico per eccellenza: ritrovare noi stessi in una collettività.
Nell’epoca, dunque, in cui si temono collisioni di civiltà, di culture ormai scalzate dall’inarrestabile processo di planetarizzazione dell’uomo, può trovarsi un simbolico momento di pacificazione (con se stessi e con gli altri) sul limitare di ogni notte. Quando cioè è tempo di quiete e di un auspicato domani. Non importa se fuori sia buio pesto. Rammentava giusto lo stesso Bloch che “ai piedi del faro non può esserci luce”.

23/03/09

Ginnastica dell’intelletto. Se la lettura è sport importante è… partecipare


Per noi sedentari non c’è sport più avvincente che leggere di sport. E più quelle pagine sono scritte bene, maggiori calorie si bruciano in virtù di emozioni e sentimenti che lottano (facile metafora di vita) su campi, piste, arene le più diverse. Da questo punto di vista la pagina che, ad oggi, ci ha suscitato il massimo della spossatezza emotiva è stato quel famoso calcio di rigore raccontato da Osvaldo Soriano in Fútbul: il rigore più lungo del mondo, incredibilmente durato una settimana, cioè dal momento in cui sibilò il fischio di un arbitro codardo a quando venne battuto la domenica successiva. Una interminabile settimana durante la quale in un posto sperduto della Valle de Rio Negro (ed anche noi spersi laggiù) fu per tutti impossibile non pensare che anche il nostro destino fosse deciso da una pedata tanto lunga nell’attesa quanto veloce e irrevocabile nel suo epilogo. Il pathos narrativo di Soriano fece scordare lì per lì perfino l’altrettanto noto e commovente Goal di Umberto Saba: “Il portiere caduto alla difesa / ultima vana, contro terra cela / la faccia a non veder l’amara luce”.
Ma non è stato soltanto il pallone a farci sussultare di emozioni letterarie. Ancora batte il nostro cuore, sincrono con i dritti/rovesci che da dietro il muro del Giardino dei Finzi-Contini sentimmo schioccare sulle racchette di Micòl e Alberto. Ugualmente aristocratico ma più misterioso del campo dei Finzi-Contini si rivelò poi il green in cui avviene Ciò che vide la signora Bulstrode; un racconto breve di Fruttero e Lucentini, che lungo le diciotto buche di un campo da golf fa percorrere alla protagonista un pauroso itinerario verso l’incubo del ricordo.
Per tornare invece ad agoni incoraggiati da furor di popolo, memorabile fu rileggere le cronache (veri spaccati sociologici) di Alfonso Gatto al seguito del Giro d’Italia verso la fine degli anni Quaranta: “A Poggibonsi le ragazze ci hanno sorriso e ci hanno gridato evviva, levandosi dalle finestre delle case e erigendosi nel busto come a mostrarci la loro bella giovinezza”.
Resta infine lo spazio per citare almeno Thom Jones con il suo racconto dell’epico combattimento tra Muhammad Alì e George Foreman (storia di riscatto sociale e non solo di pugni), così come la corsa (fuga dalla vita?) descritta da Mauro Covacich in A perdifiato. Sia chiaro, però, che il testo più folgorante rimane quello di Paolo Conte (poeta della canzone) dedicato a Bartali e a un popolo intero il cui tratto d’anima resterà per sempre contraddistinto in “quel naso triste da italiano allegro”.

16/03/09

Fede e Letteratura. Quando l’introvabile dio si trova nei libri


Risulterebbe da una indagine che il 32% degli italiani che nell’arco di un anno leggono qualche libro, abbiano scelto, fra questi, almeno un titolo ad argomento religioso. Così come sembra appurata l’esistenza di un pubblico di cultura medio-alta che anche in letteratura apprezza libri ove si parli o si alluda al Trascendente, ancorché esso rappresenti più una componente “estetica” che di fede vera e propria.
Certo è che la letteratura a questo proposito ci ha dato scritti di grandi suggestioni. Basti pensare al silenzio del dio absconditus, muto, latitante, entro cui vanno a iscriversi drammaticamente le parole di Quasimodo e di Primo Levi dinanzi agli orrori generati da guerra e nazismo. Oppure a Borges (“Io ti supplico: Dio, mio sognatore, continua a sognarmi”) che del suo non-credo fa quasi una insistita nostalgia del divino.
Del resto sul piano retorico funziona meglio il dubbio che la certezza di fede. Viene in mente, ad esempio, l’«ateologia» di Giorgio Caproni, espressa in una sorta di contro-preghiera che testimonia una religiosità senza fede; e persino fra i versi di Turoldo (frate e poeta) colpiscono maggiormente quelli attraversati da dolore e inquietudine, come quando per un mancato appuntamento di Dio si lamenta che “all'incontro cercato / nessuno giunge”. Altri nomi imprescindibili di tale filone tormentato e interrogante sono poi, in modi diversi, Corazzini, Rebora, Ungaretti, Betocchi, Luzi, Giudici.
Ma oltre la sfera personale, la letteratura certifica anche il doloroso rapporto tra Storia e Assoluto, l’irrisolto scandalo del Dolore e del Male. Dostoevskij (e non soltanto lui) ha prodotto laceranti pagine cercando risposte alla sofferenza degli innocenti. Eliot assiste, smarrito, allo spaesamento dell’uomo in una “terra desolata”. Mauriac si spinge con la narrativa fino alle zone franche della Grazia e sollecita Elie Wiesel a scrivere delle sue atroci esperienze in campo di concentramento poi narrate ne La notte (“l’Olocausto, a livello di Dio, resterà sempre il più inquietante dei misteri”). E ancora i drammi di Bernanos con i suoi personaggi prosciugati nell’anima da una perduta trascendenza. In questo frettoloso inventario non andrebbe infine tralasciato il pressante giudizio soprannaturale che troviamo in Kafka e nemmeno Buzzati, Berto, Landolfi, che fra angoscianti solitudini, “mali oscuri” e deformi spaccati di umanità insinuano trasversalmente la dimensione trascendentale.
Si sappia, insomma, che almeno nei libri non è difficile trovare il dio introvabile.

09/03/09

Donne e letteratura. Quell’altra metà della pagina scritta


In che maniera, dal punto di vista delle donne, siano andate le vicende umane, è ormai cosa risaputa. E chi eventualmente non avesse chiaro qualche passaggio può andare a leggersi il libro pubblicato nel 2000 da Rosalind Miles (che nella traduzione italiana è però reperibile in libreria solo da qualche giorno) con il sarcastico titolo Chi ha cucinato l’ultima cena? Storia femminile del mondo (edizioni Elliot).
Se dunque – come la Miles documenta – il mondo, almeno a partire dall’età del ferro, declinò ben presto al maschile la parola supremazia, è fin troppo ovvio costatare quanto recente sia anche la nascita di una scrittura letteraria femminile.
Non è stato facile, infatti, scalzare pregiudizi, mentalità, cultura e saperi in…fallibili per giungere al riconoscimento pubblico di una letteratura “femminile”. Questo faticoso percorso mosse tra Ottocento e primi del Novecento, allorquando – solo per citare le più note delle scrittrici italiane – Sibilla Aleramo, Ada Negri, Grazia Deledda, attraverso opere segnatamente autobiografiche, trovarono il modo di raccontare finalmente la condizione delle donne e, quindi (da un’ottica femminile) di una intera società. Storie di donne “vere” e non più – come fino ad allora era avvenuto per indelebile inchiostro macho – di eroine e femmine fatali. Fuori da questi stereotipi si iniziò dunque a leggere racconti che della condizione femminile restituivano la realtà e che cominciavano anche a costruire gradualmente una lingua propria (operazione complessa, considerati i codici linguistici forniti fino ad allora dai maschi). Una lingua femminile che subito intese connotarsi per “concretezza”, “fisicità”, “contingenza” e, giusto in ragione di ciò, per una notevole (e nuova) capacità evocante della parola.
A partire dall’Ottocento, ecco allora rivelarsi al mondo la genialità di scrittrici quali Mary Shelley, George Sand, George Eliot, le sorelle Bronte, Sylvia Plath, Virginia Woolf. Proprio la Woolf scriverà un fondamentale saggio sulla condizione femminile e più in particolare su quella di chi, avendone il talento, avesse voluto divenire scrittrice. Il libricino si intitola Una stanza tutta per sé ed è, allo stesso tempo, riflessione, studio antropologico e letterario su tutto ciò che mancava a una donna (l’esclusività di una stanza ne era efficace metafora) per essere se stessa e poterlo raccontare, appunto, da scrittrice.
Ebbene, solo le donne possono dire se oggi quella stanza sia davvero (come, quanto e dove) interamente disponibile.

02/03/09

Le ragioni della scrittura. Sedurre il mondo con le proprie storie


Tempi difficili per l’arte della scrittura, ormai ridotta alla mendicità. Oggi a prevalere è, infatti, la lingua nevrotica e contratta delle e-mail, degli sms, dei luoghi comuni. Una sputacchiante dislessia che dice, comunica, ammicca graficamente, ma non racconta nulla.
Per fortuna (?) in questa crescente desertificazione della parola scritta resistono gli aspiranti scrittori. Coloro, cioè, che della scrittura hanno fatto una ragione di vita, o per meglio dire il vezzo sragionato del proprio narciso, del voler comunicare agli altri la pena di esistere (ignorata, come è, dal circostante consorzio degli umani).
Ecco allora, alla bisogna, scuole, manuali, kit-pronto-uso di scrittura creativa che insegnano a mutare piccole o grandi disperazioni (l’esigenza di farsi notare è comunque una disperazione) in vicende universali. Perché – e qui il discorso potrebbe farsi serio – narrare è riuscire a trasformare in storia di tutti ciò che quasi sempre comincia con il puro autobiografismo.
Del resto, avverte Roberto Cotroneo nel suo Manuale di scrittura creativa, se desideriamo scrivere è “per sedurre il mondo” e questo ambizioso obiettivo sembrerebbe trovare sostegno anche in un autore del peso di Vincenzo Cerami (vedasi i Consigli a un giovane scrittore), che spiega, appunto, come raccontare sia “in qualche modo porre domande difficili al mondo”.
E’ pur vero che se la gran parte degli aspiranti scrittori avesse letto anche solo una ventina di titoli fondamentali della storia della letteratura, rinuncerebbe in partenza a voler “sedurre il mondo” in tal guisa, scoprendo che altri lo hanno già fatto a livelli talmente sublimi e definitivi da far sentire chiunque terribilmente inadeguato a certe repliche.
Però siamo sinceri. Se si smettesse in assoluto di scrivere, accadrebbe che anche i venti titoli basilari della letteratura poco prima evocati, sarebbero destinati a rimanere per sempre così limitati. Per non dire, poi, come in una devastante atrofia della parola scritta, potrebbe morire definitivamente il racconto del mondo. Perciò arriviamo a un compromesso. Stabiliamo in partenza, con l’ironia e la spregiudicatezza di Giorgio Manganelli, che “lo scrittore sceglie in primo luogo di essere inutile” (La letteratura come menzogna). Dopo di che, coloro che ne avessero desiderio e magari talento sono vivamente pregati di non rinunciare a questo inutile esercizio.