27/05/13

Qualcosa di innato - A proposito di toscanità

E’ morto Carlo Monni, l’indimenticabile Bozzone nel film di Benigni Berlinguer ti voglio bene (“bravo Bozzone, tu mi pari Kennedy”), il poeta in bicicletta che recitava versi sulla “strana razza”. La scomparsa dell’attore toscano – capace, anche nella vita, di esprimersi da grezzo e da poeta sublime – ha fatto dire come in lui si riassumessero i caratteri di una toscanità ormai in via di estinzione. Argomento, questo, da maneggiare sempre con cura, poiché sappiamo bene a quali degenerazioni possa condurre un malinteso senso di appartenenza. Ma è pur vero che esistono certi tratti distintivi di un popolo, frutto di storia, civiltà, cultura, ambiente. Nel caso dei toscani è opinione diffusa come non abbia mai fatto loro difetto la consapevolezza di sé. Un discusso scrittore quale fu Curzio Malaparte – ondivago nelle idee politiche, compiaciuto in una prosa che ostenta risentimento e ruvidezza – racchiuse la sua apologia della toscanità nel libro Maledetti toscani, concludendo che costoro non sono né migliori né peggiori degli altri italiani, ma semplicemente diversi, ed è di questa diversità ed unicità che vanno fieri. A detta di Malaparte, tutti dicono male, e a ragione, dei toscani per la loro schiettezza, “perché non si pentono delle loro cattive azioni per non doversi pentire anche di quelle buone”, e perché – sostiene ancora il caustico Curzio – “rappresentano la cattiva coscienza d’Italia”. Un giudizio molto lucido sulle tesi malapartiane (e sui motivi per cui esse possano ancora oggi affascinare) lo troviamo in uno scritto di Emilio Cecchi, che definì Maledetti toscani “… un carosello nel quale molte indiscutibili verità si alternano a spericolati paradossi; e da motivi di schietto sentimento poetico si passa, quasi senza transizione, a chiassate rumorose e un po’ grevi, come episodi d’un giovedì grasso”. D’altra parte perdura un’idea di toscanità (e un suo sincero sentimento popolare) che si è alimentata, nel tempo, con le pagine manierate e bozzettistiche di Renato Fucini, lo ‘strapaese’ di Mino Maccari, il populismo di Vasco Pratolini, il minimalismo ‘subliminale’ di Carlo Cassola. Proprio su questi temi ricordo una conversazione con Mario Luzi. Passeggiavamo sul lungarno fiorentino di Bellariva e il Poeta, con la pacatezza d’eloquio e la profondità di pensiero che lo contraddistinguevano, badava a dire come la toscanità (alludeva a quella di Soffici, Papini, Cecchi, Campana) fosse “un dato ovvio e innato”, “un concetto e una elettiva assunzione di valori”; lungi, però, da ogni forma di boria e ostentazione. Anzi, nella visione luziana, dire Toscana significava sobrietà, elementarità, concretezza, “qualcosa di spoglio e di arioso”. Guai quando tale ‘categoria’ fosse stata adoperata per escludere, circoscrivere un mondo di memorie, difendere “ceneri ormai fredde” o “delizie vernacolari”. Nulla, dunque, da celebrare. Ma valori cui attingere per continui ricominciamenti. Suggeriva Luzi che si è tanto più toscani quanto meno si toscaneggia. Altrimenti si è toscanucci e non è una bella razza.

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